venerdì 14 marzo 2025

Siberia: dalla deportazione la speranza (1999)


D
i Dani Noris



“Solo la fede ci ha tenuto in vita” Questo ci continuava a ripetere Polina, una delle babuske incontrate in Siberia. Dopo quasi 60 anni il ricordo dei giorni terribili della deportazione, è di una lucidità impressionante. Di alcuni fatti le babuske ricordano il giorno e l’ora. Gli avvenimenti le hanno segnate così profondamente che nessun dettaglio è andato perso. Ricordano in qualche modo la precisione dei racconti evangelici, dove è spesso ripetuta la frase: “era l’ora terza”, oppure “era l’ora nona”.Noi di Caritas Ticino, accompagnati dal direttore della Caritas siberiana, guardavamo queste donne sopravvissute alla deportazione e ai lavori forzati, come a un’icona vivente, rendendoci conto di essere al cospetto di qualcosa di veramente eccezionale. 

Umiliate, perseguitate, picchiate a causa della loro fede, sono rimaste fedeli a Cristo, e Stalin che ne aveva decretato l’annientamento si è trovato suo malgrado partecipe della nascita della Chiesa cattolica in Siberia. Ironia della storia! 

I deportati sono stati milioni e i sopravvissuti, quasi solo donne, sono pochissimi. Abbiamo raccolto alcune testimonianze fatte in un misto di russo e tedesco e vogliamo dar voce al loro vissuto, una pagina di storia praticamente sconosciuta.

Ecco come le cose sono iniziate: Fra la fine del Settecento e la prima metà dell’Ottocento, gli zar, da Caterina la Grande a Alessandro II invitarono diverse migliaia di tedeschi a coltivare le terre fertili ma disabitate della parte meridionale della Russia da poco annesse all’impero. 

I tedeschi avevano autonomia amministrativa, potevano usare la loro lingua per gli atti ufficiali e nelle scuole, avevano libertà religiosa e anche qualche libertà politica.

Con Stalin al potere, la tranquilla vita dei Russlandeutsch, o Kulaki, come erano chiamati, fu travolta da un uragano: l’immagine del contadino benestante, che lavorava la sua terra e credeva in Dio non era certo l’immagine dell’uomo nuovo modellato dal partito.

Iniziò così la deportazione di centinaia di migliaia di uomini, fra i quali il padre di Polina e delle altre Babuske incontrate in Siberia: “Nostro padre fu portato via di notte con altri uomini, ricordo nostra madre che rincorreva il carro piangendo. Le ruote avevano lasciato dei solchi sulla terra bagnata e per diversi giorni le donne si chinavano a baciarle, era l’ultimo ricordo del loro uomo. Poi la pioggia e il vento ha cancellato anche queste tracce e della maggior parte degli uomini non si seppe più nulla. Solo negli ultimi anni qualcuno è venuto a sapere quale sorte era toccato ai loro cari: o la fucilazione o la morte di stenti nei campi di lavoro”.

Con l’invasione dell’URSS da parte dell’esercito tedesco, la situazione dei Russlandeutsch non poteva che peggiorare, Stalin ritenendoli potenziali alleati di Hitler decretò l’abolizione della Repubblica dei tedeschi del Volga e organizzò il 28 agosto 1941 la deportazione generale. In pochi giorni donne, bambini, uomini, vale a dire un intero popolo, fu fatto sparire.

Ci racconta Lidia, un’altra sopravvissuta:

“Quando ci hanno presi e ci hanno portati in città siamo passati da alcuni villaggi evacuati. Non c’era più nessuno tranne gli animali rimasti soli e ogni bestia esprimeva il suo dolore con il suo linguaggio, era una cosa terribile. Le porte delle case vuote erano sbattute dal vento e il latrare dei cani, il muggire delle mucche erano un lamento che svegliava i boschi addormentati.  

Al momento in cui ci hanno ordinato di prepararci a partire, nostro fratello aveva la febbre altissima e non riusciva nemmeno a muoversi. Aveva 15 anni e piangendo gridava: “ Mamma non portarmi da nessuna parte, lasciami qui nel mio letto.” Ma nostra madre non poteva decidere niente, e comunque come avrebbe potuto lasciare solo un figlio così malato. Allora l’abbiamo preso in braccio e ci hanno caricato tutti sui vagoni. Il terzo giorno di viaggio, alle cinque di sera nostro fratello è morto. Quando il capotreno è venuto a saperlo ha mandato la notizia alla prima stazione di transito. A mezzogiorno dell’indomani il treno si è fermato, hanno aperto il lucchetto e i ragazzi della milizia sono entrati e l’hanno portato via, poi hanno richiuso le porte e il treno è ripartito.  Nostra madre è quasi impazzita dal dolore, non poteva nemmeno seppellire il suo unico figlio maschio. Non sappiamo cosa ne abbiano fatto, se l’hanno sepolto, se l’hanno messo in una fossa comune, se l’hanno bruciato. Sappiamo solo che nostra madre, giorno dopo giorno e fino alla morte non ha mai cessato di soffrire.

Sui binari morti si possono vedere, ancora oggi, dei vagoncini rossi abbandonati, ecco è in quei vagoncini che ci hanno portato, a gruppi di 80. Non potevamo sederci ne sdraiarci. I primi giorni ci davano da mangiare un pasto al giorno, poi più niente. Dopo 18 giorni di viaggio ci hanno scaricati facendoci sedere lungo i binari. 

Nelle vicinanze c’era un kolkoz e noi dovevamo aspettare che organizzassero il trasporto con dei carri. Abbiamo iniziato a lavorare nel kolkoz, ma dopo un anno ci hanno mandato ai lavori forzati, eravamo tre sorelle e ci hanno divise tutte. Lì la vita era veramente un inferno. Al mattino quando era ancora buio ci mandavano nei campi, in mezzo alla neve a raccogliere il grano lasciato a mucchi. C’era tantissima neve e noi non avevamo abiti caldi. La sera quando rientravamo nelle baracche o nelle buche scavate nel suolo, avevamo le gambe congelate e  coperte di sangue. 

Non c’era nemmeno una stufa per scaldarci né per fare asciugare i vestiti. Ci dormivamo sopra per scaldarli e il mattino dopo ce li rimettevamo ancora bagnati e uscivamo al lavoro a -30°. Inverni interi abbiamo vissuto così, i nostri vestiti marcivano sui nostri corpi. Ho lavorato così per 14 anni, trattata  peggio dei maiali. Il poco cibo che ci veniva dato era schifoso. Le nostre facce erano gonfie dalla fame e dal nostro viso colava dell’acqua, sembrava che le nostre teste dovessero scoppiare talmente erano gonfie.”

Polina ha un volto stupendo, due grandi occhi azzurri e uno sguardo calmo, rassegnato. Non c’è rabbia nel suo racconto, solo un’infinita tristezza, che ti scuote le viscere. La guardi e ti chiedi come abbia potuto resistere 14 anni così.: “ Solo il pensiero di Dio mi ha tenuta in vita”

Anche Nina Antonova è sopravvissuta agli stenti, anche lei, con voce tranquilla racconta:  “Durante tutta la mia infanzia ho creduto e pregato, e quando ci hanno deportati avevo 17 anni. Sono stata mandata ai lavori forzati, lavoravo nel bosco da quando faceva  giorno fino a notte inoltrata. Abitavo in un rifugio scavato nella terra. Dal 1942 al 1948 ho vissuto in quella  buca, in compagnia del freddo e della fame. Poi mi hanno mandato in ospedale per sei mesi perché le ginocchia mi si erano congelate e la carne marciva, così dovevano togliermela a pezzi. 

Ho passato anni terribili ma ogni domenica mi incontravo con Polina a pregare, perché lei aveva una statuetta della Madonna. La vita è diventata più facile da quando i preti hanno cominciato a venire da noi, nel 1994. Io era dal 1934 che non vedevo un prete.”

Il racconto di un’altra babuska di nome Nina:

“I miei genitori erano credenti, mio padre fu deportato prima di noi e messo in prigione, con una condanna di 10 anni ma è morto dopo cinque. Siamo venuti a saperlo ultimamente perché ci hanno mandato dei documenti in cui si dice che è stato riabilitato. Anch’io sono passata da tutto quello che hanno raccontato le altre, ma  ho avuto la fortuna di vedere un prete una volta. Era arrivato in paese all’improvviso, non so come si sia riusciti a far passare la voce ma ci siamo radunati di nascosto in una casa e ha battezzato  al buio tutti i nostri figli. Poi è sparito, probabilmente è stato arrestato perché lui andava dappertutto, battezzava, confessava, celebrava la messa. “Non abbiate paura” continuava a ripeterci. Lui paura non ne aveva ma credo sia stato incarcerato o ucciso perché  più nessuno l’ha rivisto.”

Il direttore della Caritas siberiana,  don Ubaldo, sacerdote italiano dei Missionari di San Carlo, era arrivato in Siberia nel 1991. Dopo circa un anno il Vescovo di Novosibirsk Mons. Werck, aveva detto:  “Poiché ora capisci abbastanza il russo da poter confessare, vai in quella tal regione perché ho sentito dire che ci sono alcune babuske cattoliche, vai e celebra per loro la Pasqua”. Don Ubaldo si aspettava di incontrare qualche vecchietta, ma appena giunto a Polovinnoe, un villaggio a circa 350 km da Novosibirsk un tam tam silenzioso si era messo in movimento da una casa all’altra, da un villaggio all’altro. Giunse fino all’isba di una vecchietta che da 50 anni pregava per riuscire a vedere ancora un prete e accostarsi ai sacramenti. La babuska si mise immediatamente in viaggio, camminando per un’intera settimana. Rimase una settimana a Polovinnoe e riprese il cammino di casa. Tre settimane per confessarsi e ricevere la comunione!

Per don Ubaldo l’incontro con questa realtà è stata un’esperienza travolgente. Con l’aiuto della gente ha costruito una bella chiesa che ora è affidata a un altro sacerdote, Padre Francesco che è diventato un prete ambulante che gira di villaggio in villaggio a incontrare le piccole comunità di credenti. 

Negli ultimi anni moltissimi tedeschi di Russia hanno lasciato la Siberia e si sono trasferiti in Germania dove sono state aperte le porte ai sopravvissuti. Per le babuske si tratta di un’altro viaggio verso una terra straniera, poiché in Germania non ci sono nate e il tedesco che parlano lo capiscono solamente fra di loro. Se hanno lasciato la Siberia è perché potevano portare figli e nipoti e offrire loro un’opportunità di vita migliore. Un nuovo strappo, un ulteriore gesto di offerta, sostenute  anche in questo nuovo esodo dal fondamento della loro vita, la fede in Gesù Cristo. Un sacerdote tedesco raccontava a don Ubaldo che le babuscke giunte in Germania sono un dono prezioso per la Chiesa cattolica tedesca.

Percorrendo l’itinerario di Padre Francesco  siamo arrivati da Ana e Sasha. Loro non hanno voluto lasciare la Siberia, non hanno avuto figli, non c’è scopo lasciare la terra sulla quale hanno tanto lavorato e sofferto. Sasha, con la sua camicia a scacchi che non riesce a chiudere lasciando scoperto un enorme ventre, questa è la sua tenuta anche quando la temperatura scende oltre i meno 20°, parla poco del passato, risponde a monosillabi: “Domandate a lei - dice indicando la moglie - lei ricorda tutto”. Soltanto più tardi, quando l’intervista è terminata la lingua gli si scioglie e tiene banco con uno humour pungente e delicato. Ci serve il “pirivon” un distillato di vodka, la cui gradazione non ci è stata rivelata, ma che ha lasciato le nostre lingue insensibili per un paio di giorni.

Sua moglie Ana, con il  fazzoletto colorato e le forme da matrioska ha un sorriso buono, caldo, lei davvero ricorda tutto: “Potrei scrivere un libro grosso così e forse non basterebbe per raccontare tutto!

Il 28 agosto ci hanno radunati da ogni parte e ci hanno fatto rimanere stesi per terra per tre giorni, sotto la pioggia, poi ci hanno caricato su carri e portati a un porto, sul Volga. Con il battello ci hanno trasferiti in città e poi caricati su vagoni bestiame. Eravamo stretti come pesci  in un barattolo, se eravamo girati su un fianco rimanevamo così fino a quando tutto il vagone non si metteva d’accordo su come muoversi.

Quando siamo arrivati qui, nostro fratello maggiore è stato mandato ai lavori forzati ed è morto, così come è morta mia sorella, io invece ero troppo giovane e sono stata con la mamma che lavorava in un kolkoz.

Sono stati anni in cui abbiamo conosciuto ogni sorta di umiliazione. 

I soldati avevano potere assoluto di vita e di morte su di noi. Sapevamo che avrebbero potuto ammazzarci senza dover rendere conto a nessuno. Avevano escluso Dio dalla loro vita e questo rendeva loro le cose più facili. Ricordo un giorno, in un villaggio qui vicino, un soldato ci ha fatto mettere tutti in cerchio e ci urlava che avrebbe potuto fare di noi quello che voleva. Per dimostrarci che era vero ha scelto una bella ragazza, l’ha fatta piegare davanti a sé e le ha sparato.

Noi abbiamo continuato a pregare ogni giorno. Pregavamo anche con le altre famiglie qui intorno, di nascosto sottovoce, al buio. Andando a scuola spesso la milizia mi chiedeva se a casa pregavo, io negavo perché altrimenti mettevo in pericolo la vita di mia madre. Negavo, ma la preghiera la tenevo cara nel cuore.

Conoscevamo a memoria alcune preghiere ma avevamo anche un vecchio libro di nostro padre, che tenevamo nascosto. Parlavamo in russo ma pregavamo in tedesco. A  Pasqua e a Natale ci ritrovavamo in una baracca qui dietro casa nostra,  tutti quelli che potevano camminare si riunivano. Facevamo tutto in gran segreto per non attirare l’attenzione, ma a volte eravamo più di duecento stipati nella baracca a pregare. Fino al 1997 quando è arrivato padre Francesco, che ora viene ogni due settimane a celebrare la messa, non è mai venuto un prete qui. Però nel 1958 abbiamo saputo che a Karagandà c’era un sacerdote, così con Sasha ci siamo messi in viaggio e siamo andati a sposarci.”

La nostra vita è stata davvero dolorosa, i nostri occhi hanno visto orrori che spesso mi chiedo come abbiamo potuto sopravvivere a tutto questo.  Non riesco ad immaginare cosa avremmo potuto fare della nostra vita se non avessimo amato Dio

Dopo aver passato qualche giorno con le babuske siamo andati dal vescovo di Novosibirsk, Mons. Werk, figlio della deportazione. Accogliendoci ci ha detto che abbiamo avuto un amico comune, Mons. Corecco che aveva avuto modo di conoscere e stimare.

Contemplando la Cattedrale, inaugurata nel 1997 pensavo agli anni della mia gioventù quando con alcuni amici mi ritrovavo a pregare per i cristiani della Chiesa del silenzio, per la Russia cristiana. Leggevamo le pubblicazioni del Samizdat, divoravamo i romanzi di Solzenicyn, di Sinjavskij e degli altri scrittori del dissenso. Pregavamo per i nostri fratelli perseguitati che non avevano né un volto né un nome. Ora avevamo conosciuto alcuni di questi volti, ascoltato le loro storie, pregato con loro  in una Chiesa in Russia e mi sembrava di vivere un miracolo.

I mattoncini rossi con i quali la Cattedrale è stata costruita ci ricordavano le migliaia di persone che avevano sofferto disperse in quel territorio immenso. Ognuna di loro aveva contribuito a costruire la Chiesa, il sangue di quei martiri non era stato versato invano. 

Guardando alla nostra storia, alle vittime innocenti, al dolore del mondo causato dal desiderio di supremazia di uomini su altri uomini facevamo nostre le parole di Polina: Solo la fede può tenerci in vita.

venerdì 8 gennaio 2021

Il mio nonno Antonio il giorno del suo ottantesimo compleanno con il mio papà Pio

8 gennaio 1959


Mi chiamo Daniela e ho 7 anni e mezzo. Oggi è giovedì ma non vado a scuola. Sono molto felice perché è un giorno speciale, non solo perché  non vado a scuola ma perché il mio nonno compie 80 anni e si fa una festa con tanti parenti invitati. Nella saletta dove non andiamo mai hanno messo insieme dei tavoli con la tovaglia bianca e sembra un unico  tavolone lungo. La mamma ha tirato fuori dalla credenza il servizio con i fiordalisi che ha ricevuto per il matrimonio e a me sembra tutto incantevole. Ha messo anche i bicchieri a calice, tutte cose che usiamo solo a Natale. Io pero non mangerò seduta a quel tavolo perché c’è posto solo per un bambino e si deve scegliere uno di noi quattro. Potrebbe essere scelta mia sorella Mariapia perché é la più grande, o mio fratello Franco perché è l’unico maschio oppure Angela perché è la più piccola. Però secondo me dovrei essere io perché sono la preferita del nonno, ma non si vogliono fare preferenze per cui non essendo la più grande o un maschio o la più piccola sono esclusa. Questa cosa mi intristisce un po’ ma non voglio rovinarmi questa giornata e quindi cerco di non  pensarci. Almeno non oggi. Poi la maestra, alla quale i miei genitori hanno chiesto il permesso per l’assenza della scuola, mi ha tenuto in classe ieri sera per insegnarmi una poesia per il mio nonno, quindi al momento della torta io andrò nella saletta e reciterò la poesia e vedrò la commozione di tutti e avrò il mio momento. Però prima andiamo a messa nella chiesina. È molto freddo e anche strano andare a messa di giovedì mattina quando tutti i miei compagni sono in aula. Mi sento molto importante. La messa è in latino e il prete rivolto all’altare bisbiglia delle preghiere che non capisco. Però so un po’ il Pater noster e il Gloria Pater e lo recito con  gli altri e dico anch’io Amen anche se con un secondo di ritardo perché non so mai quando si deve dire. 

Poi torniamo tutti in casa dove la mamma si rimette ai fornelli. È venuta sua sorella, la zia Giovannina,  a darle una mano. Ci sono dei piatti già pronti con varietà di salame, prosciutto e mortadella. Il bollito misto sta cuocendo da parecchio e sarà pronto per mezzogiorno, l’arrosto è stato cucinato ieri e tagliato a fette da freddo e dovrà solo essere riscaldato. Le patate sono servite bollite con il bollito e fritte con l’arrosto. La mamma è un po’ in agitazione ma è  una bella cosa perché quando fa così io so che tutto le riesce bene. Non ci vuole attorno per cui sto seduta sulla  panca vicino al camino e cerco di non dar fastidio. Mi piacerebbe che  mi chiedesse di portare in tavola il cestino del pane o i piattini con la mostarda, o qualsiasi altra cosa così da vedere un po’ cosa sta succedendo di là perché sento ridere e fare dei brindisi, ma aspetto che me lo chieda lei perché potrebbe non gradire di dovermi dare retta. Angela è più  spontanea e meno timida di me per cui fa qualche  entrata nella sala della festa con il suo visino da furba e tutti ridono. Io vorrei fare come lei ma sono una bambina un po’ troppo cicciotta e goffa  e non faccio ridere nessuno e voglio evitare umiliazioni che poi mi tocca rivivere all’infinito. È meglio che rimanga seduta tranquilla a ripetermi la poesia in modo da dirla bene. La maestra ieri sera mi ha fatto capire che sono proprio brava e non vorrei inciamparmi all’ultimo  momento. Finito il pranzo sul tavolo compaiono torte, panettoni, spagnolette, mandarini, e liquori. È il momento delle poesie. Recito la mia senza alzare gli occhi fino alla fine e poi incrocio lo sguardo del nonno, mi sorride nel suo modo sereno, e capisco che è contento, che è fiero,  che sa che lo venero. Poi anche gli adulti leggono quello che hanno preparato. Un parente fa ridere tutti raccontando la storia del mio nonno in dialetto e in rima. Ricordo solo qualche frase : « 

L’è  nasü press a ra Val da Odogn

On bel tosin che al se chiamava Togn 

L’eva bel insci pignin 

A l’eva or carö dro pà Stefenin

L’ha imparò prest a girà or mond

L’ha quasi fai or gir dro mapamond 

Ma lù al preferiva nà a Forca

....

L’è li ca la metü sü ra industria 

E anca ai bèdre al ghe tirava giù ra rusca 

Al fava su di bei ninnatol 

Dro tabac anca i scatol 

L’ha incontró na penagina che la s’ciamava Angiolina

.......

Gli uomini hanno fatto onore al vino e alla grappa e sono allegri, le donne sono contente di aver avuto una giornata di vacanza e di aver potuto mettere i piedi sotto il tavolo senza dover cucinare, a parte mia mamma e mia zia che hanno fatto avanti e indietro, per preparare, servire e rigovernare. Ma c’è una luce di soddisfazione nei loro occhi. É stato tutto bellissimo.  Buon  compleanno nonno caro.

domenica 25 novembre 2018

Ricordando Giordi

Un lieto pomeriggio insieme, Dani, Giordi e la nostra preziosa Silvana.

RICORDO DI GIORDI

Ieri abbiamo accompagnato per il suo  ultimo viaggio un grande amico. Lo ricordo con le parole che ho pronunciato al centro funerario di Riazzino.

Giordi, per me e per gli amici della colonia che in questo momento rappresento, è un amico di vecchia data, un compagno di viaggio della prima ora.
Negli anni 70 quando abbiamo iniziato l’avventura della colonia dell’unità di lavoro sociale, quando eravamo giovanissimi, avevamo questa immagine per definire la nostra compagnia: siamo un popolo in cammino.
Era chiaro per tutti noi  che eravamo in cammino verso una meta, e che questa meta è l’incontro con il Padre. Incontro che sarebbe avvenuto nel momento della morte. Anche il concetto di morte pareva chiaro, ma talmente lontano. Ora che sono passati 45 anni e che diversi di coloro con i quali ci eravamo messi in viaggio hanno già raggiunto la meta, più che mai il bisogno di certezza si fa presente.
C’è questo canto, che ci ha accompagnato per  tutti questi anni che dice: è bella la strada che porta a casa, è bella la strada per chi va … e il ritornello finisce.. e dove ti aspettano già. Giordi è andato dove lo stavano ad aspettare e mi consola pensare che in questo momento assieme ai suoi genitori e ai suoi innumerevoli zii  ci sono alcuni di quel nostro popolo in cammino a far festa con lui. Penso a Corecco, a Carlo, a Mimi, a Lolli, a Gabriele, Michelino e Mauro .E’ bella la strada che porta a casa! 
E’ stata bella la nostra strada insieme a Giordi.  Abbiamo vissuto moltissime avventure,  messo in scena tanti spettacoli, soprattutto negli anni in cui la colonia si svolgeva a Sonogno e si recitava sulla piazza davanti alla popolazione. Lui si dedicava anima e corpo. Ha interpretato tanti personaggi, spesso i protagonisti della storia, come  Re Artu o Guglielmo  Tell. Ma credo che quello che più gli è rimasto nel cuore è stato il video  il “Cantico delle Creature”  realizzato nel 1985 a Melchseefrutt.  Aveva passato parte della notte per assistere al montaggio e questo evento ce lo siamo ricordato ogni volta che ci incontravamo. Il video è stato trasmesso qualche anno fa  a Caritas TV su Teleticino e ne eravamo piuttosto fieri. Video e intervista che ha rilasciato quando si trovava in clinica a Gravesano. La potete vedere su youtube cercando “Cantico delle creature” o semplicemente inserendo in Google Giordano Morinini. (link a fine testo)
Abbiamo fatto anche qualche vacanza insieme, vacanze di Natale o Carnevale e soprattutto un viaggio a Assisi, con lui che spesso  faceva da guida, perché la sua conoscenza  dei luoghi e della storia del poverello di Assisi la sapeva meglio di tutti.
Ricordava le persone, le date, eventi, fatti, pezzi musicali, era  bravissimo a risolvere le parole crociate, interessato a tutto.  La prima immagine che ho di lui, aveva forse  13 anni,  è un duello, aveva sfidato un compagno a “singolar tenzone”, e mentre manovrava la spada di legno chiamava l’avversario “vil marrano”! Parlava così, aveva un vocabolario che ci sbalordiva .
L’anno in cui ha partecipato alle Olimpiadi a Minneapolis negli USA, ha dovuto rinunciare alla colonia  e la cosa non è stata semplice. Ricordo la telefonata della sua mamma che mi chiedeva di aiutarla a convincerlo a partire perché aveva deciso di non andare in America per non perdere la colonia. Ero riuscita a motivarlo  dicendogli che era suo dovere andarci, era come una missione per tutti noi, che le olimpiadi ce le sognavamo e che doveva far tesoro di emozioni che al ritorno avrebbe dovuto raccontarci, dalla stretta di mano a Arnold Schwarzenegger e ai vari altri VIP, alle parate iniziali e finali. E così è partito, e ha anche  vinto una medaglia. E per diversi anni ha sfoggiato magnifiche magliette, portato uno splendido cappello bianco da cow boy  e mostrato con grande fierezza la sua medaglia. A promuovere le Olimpiadi speciali era stata Eunice Kennedy, la sorella del presidente  morto il 22 di novembre, la stessa data del nostro Giordi. Una coincidenza che secondo me gli sarebbe piaciuta.
Poi gli anni sono passati anche per lui, la malattia lo ha raggiunto sotto varie forme, quest’anno in colonia non ha potuto andare.  E’ rimasto in Ticino con la sua Flavia, la sorella che lo ha curato, amato, stimolato e aiutato a diventare l’uomo che è diventato.
Con il cuore pieno di tristezza ma colmo di gratitudine prendiamo commiato dal nostro amico Giordi, nella certezza che fa ormai parte di coloro che ci stanno aspettando.




         

lunedì 17 settembre 2018

Marianne Charmillot




Quando leggo un romanzo con qualche riferimento biografico mi pare sempre che l’autore abbia saputo abitare il tempo in modo più consapevole di quanto abbia mai fatto io. Provo a volte a prendere spunto per capire come rendere giustizia al mio vissuto, che, per quanto  sia poco eroico non ha niente di banale. Il fatto di aver  messo al mondo cinque splendide persone è già la certezza che la vita cosi come l’ho vissuta ha il suo compimento.
Da bambina mi aveva molto colpito il pensiero che ogni anno senza saperlo celebriamo il giorno della nostra morte e che per i nostri cari quella tal data  sarà importante.
Le date mi hanno sempre affascinato e come i numeri hanno una collocazione  visiva ben precisa nella mia mente. Qualche volta ho tentato di disegnare  numeri e giorni, ma dopo averci lavorato ho sempre trovato che quei grafici non hanno nessuna coerenza con quanto vedo interiormente.
Oggi 17 settembre il primo pensiero al mio risveglio è stato per i  miei figli gemelli che compiono 38 anni. 
Poi ho pensato al piccolo Gabriele che 32 anni fa è andato in cielo e a Marianne che invece ci è andata 15 anni fa. Una data che ha la sua storia!
Ho consultato velocemente Google dove sono riportati parecchi eventi avvenuti il 17 settembre, il più interessante per me è la nascita nel 1907 della Harley-Davidson Motor Company. 
Ho una bella foto di Marianne scattata nel 1971 con in testa il mio casco da moto Cromwell.
Marianne era una ragazzina down di cui mi occupavo quando ero educatrice al castello di Seedorf nel canton Friborgo. Avevo 20 anni e un compito arduo,
dovevo occuparmi durante il loro tempo libero di una trentina di ragazzine, dai 6 ai 14 anni, avendo a disposizione un cortile con tre altalene, una palla e in caso di cattivo tempo un salone con un’acustica terrificante. Ero da sola a curarle ma a mia volta ero curata da una suora che sorvegliava da una finestra il mio impegno. Erano per la maggior parte ragazzine con difficoltà di apprendimento scolastico e con loro era facile organizzare giochi, ronde, teatri. Alcune però erano collocate in istituto a causa di situazioni famigliari terribili dove avevano subìto violenze di ogni genere e  portavano incise nel cuore delle profonde ferite dolorose che anestetizzavano con un comportamento aggressivo e violento che talvolta mi lasciava senza fiato. Non so quante volte avrei voluto buttare la spugna, e probabilmente l’avrei fatto se non ci fosse stata Marianne Charmillot a sostenermi. Ho scoperto il potere consolante e terapeutico di Marianne un giorno in cui due delle ragazze più grandi avevano messo in scena una insurrezione per qualcosa che era successo in classe la mattina. Non osavano ribellarsi all’insegnante che era una suora dal pugno di ferro che non esitava a utilizzare, per cui come spesso succedeva si sfogavano su di me. Mentre cercavo di placare la loro ira, quasi con le lacrime agli occhi, si è  alzata imperiosa la voce di Marianne: “Arretez d’embêter Madame Daniela”.  
Ricordo quel momento come uno spartiacque, tutte ci  siamo girate verso di lei, le ragazzine si sono ammutolite, io ho preso coscienza di come lei, da settimane, seduta sulla sua altalena vegliava su di me. Non ci avevo mai fatto davvero caso fino a quel preciso istante ma da quel giorno andare al lavoro è diventato qualcosa di completamente diverso, non vi andavo più preoccupandomi di cosa avrei trovato e cercando strategie per sopravvivere, da quel giorno andavo sapendo che qualcuno che mi voleva bene mi stava aspettando. 


Ho cercato in internet “Marianne Charmillot Vicques” e ho trovato la fotografia della sua tomba, è l’unico riferimento alla sua persona, per questo oggi sento il bisogno di affidare questo breve ricordo sulla rete, perché ci sia una piccola traccia della vita della mia amata e indimenticabile Marianne.